Se Non Ora Quando: “Emendamento salva-stalker: misura indegna di un Paese civile”

L’emendamento che esclude gli stalker dalla custodia cautelare in carcere è una misura indegna di un Paese civile. Il movimento Se Non Ora Quando, nato dalle piazze il 13 febbraio 2011, critica aspramente la modifica votata da Palazzo Madama al decreto “svuota carceri” con il parere favorevole del Governo e chiede alla Camera di invertire la rotta e rimediare al grossolano errore.

Prevedendo che la custodia cautelare in carcere (articolo 280, comma 2, del Codice di procedura penale) sia limitata solo “ai delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni”, la norma salva gli stalker dalla custodia cautelare, perché il reato di stalking prevede una pena detentiva dai sei mesi ai quattro anni.

La modifica porta così al paradossale risultato di non contrastare affatto con misure congrue l’escalation di femminicidi, il più delle volte preceduti da molteplici denunce delle vittime nei confronti di chi poi si trasforma nel loro assassino.

Se Non Ora Quando esprime il suo sdegno e auspica che la commissione Giustizia della Camera sani questa palese ingiustizia. Di ben altro hanno bisogno le donne perseguitate dai propri stalker, a partire da un Piano nazionale antiviolenza, nonché della piena attuazione delle indicazioni comunitarie e internazionali per prevenire abusi e maltrattamenti.

Sbagli o disattenzioni non possono più accadere visto il ripercuotersi sulle vittime di una violenza gratuita, umiliante e purtroppo letale, quando non fermata in tempo. La modifica del testo è indispensabile: le deputate e i deputati di tutte le forze parlamentari diano prova della sensibilità delle Istituzioni e della politica tutta riguardo un dramma che coinvolge migliaia di donne. Il faro c’è, ed è quella Convenzione di Istanbul che questo stesso Parlamento ha appena ratificato all’unanimità.”

Lettera aperta al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Illustre Presidente,
nel prossimo mese di settembre dovrà essere nominato un nuovo Giudice Costituzionale per la scadenza naturale di un mandato.

Poiché attualmente la Corte Costituzionale vede la presenza di una sola Giudice, sottoponiamo alla Sua attenzione l’opportunità di nominare un’altra donna per rivestire tale ruolo.

Le rivolgiamo questo caldo invito poiché riteniamo non giustificabile l’attuale esigua presenza femminile, anche in considerazione della possibilità di individuare agevolmente tra le donne competenze adeguate.

Come Accordo di Azione Comune per la Democrazia Paritaria – ricorderà che abbiamo avuto l’onore di essere state da Lei ricevute nell’aprile 2012 – da anni stiamo sostenendo a tutti i livelli e nelle varie circostanze la necessità di incrementare le presenze femminili nei luoghi della rappresentanza politica e istituzionale del nostro Paese. L’intento delle 55 Associazioni che hanno sottoscritto l’Accordo è quello di colmare il divario – ormai insostenibile e ingiustificabile – tra le competenze delle donne italiane e la loro presenza sulla scena pubblica.

Contiamo dunque sulla Sua sensibilità e sui richiami da Lei più volte esplicitati circa la necessità di dare valore alle donne italiane anche allo scopo di sostanziare la nostra democrazia e rinvigorirne la presenza a tutti i livelli pubblici.

Le inviamo i nostri deferenti saluti.

ACCORDO COMUNE PER LA DEMOCRAZIA PARITARIA

per contatti :
Daniela Carlà /cell 331 6986527 – 338 8379840
Marisa Rodano / cell 339 8880635
Roberta Moroni / cell 347 7502895

La presidente della Camera Laura Boldrini e il ruolo delle donne in Tv

Dal sito della Camera
http://presidente.camera.it/5?evento=152&intervento=152

Convegno sul tema ‘La violenza sulle donne è un’emergenza. L’immagine e il potere. Istituzioni e media verso il cambiamento’ – Milano, Aula Magna Camera del Lavoro

Buongiorno a tutte e a tutti. Vorrei ringraziare innanzitutto gli organizzatori e le organizzatrici di questo importante incontro:la Camera del Lavoro di Milano, la Cgil,le associazioni di donne milanesi che hanno portato qui stamattina un lavoro di anni. Venerdì e sabato scorsi sono stata in Calabria: per portare il mio sostegno alle sindache in lotta contro la ‘ndrangheta, agli imprenditori che vivono sotto scorta, e per ricordare – in mezzo a centinaia di giovanissimi “nuovi italiani” – che il nostro Paese è pronto per fare un passo avanti sul riconoscimento della cittadinanza. Ve ne parlo perché durante la visita ho vissuto uno dei momenti per me più difficili di questi primi mesi da Presidente.

È stato quando, nell’ufficio della sindaca di Rosarno, ho potuto incontrare i genitori di Fabiana Luzzi, la ragazza non ancora sedicenne bruciata viva da un suo quasi-coetaneo a Corigliano Calabro, alla fine di maggio. Quelli della sua uccisione erano i giorni e le ore in cui la Camera stava ratificando all’unanimità la Convenzione di Istanbul: a Fabiana molti deputati e deputate avevano dedicato il loro intervento, e l’aula si era fermata per ricordarla.

Trovarsi a parlare coi suoi genitori è stato aver di fronte e sentire lo strazio più grande che a un essere umano possa essere dato di vivere. Ripenso alla domanda che mi ha fatto la madre, mentre riponeva le bellissime foto di Fabiana che mi aveva appena mostrato: “Mi dica, Presidente: ma come si può portare una figlia in una borsa?”

Vorrei che tenessimo bene a mente – soprattutto noi delle istituzioni – quel dolore, quando sentiamo i dati sul femminicidio. Già 60 sono state le donne uccise dall’inizio dell’anno nel nostro Paese. Una strage – di questo si tratta – che prosegue inesorabile, metodica, indisturbata: il rapporto Eures dice che tra il 2000 e il 2011 i femminicidi in Italia sono stati 2061, su un totale di 7440 omicidi. E di questi 2061, ben 1459 sono stati quelli maturati in ambito familiare. Un'”emergenza”, se con questa parola si intende un fenomeno gravissimo;ma non se si intende qualcosa di inaspettato, imprevedibile, perché gran parte dele donne uccise aveva già fatto una denuncia. Donne uccise in quanto donne, perché la loro autonomia è stata ritenuta insopportabile da mariti, compagni, fidanzati, ex-fidanzati.

Di questo parliamo, quando parliamo di femminicidio. Una parola nuova, per esprimere una nuova consapevolezza. Lo ha detto qualche settimana fa sul suo sito l’Accademia della Crusca, rispondendo a chi chiedeva se avesse senso sottolineare nel linguaggio il sesso di una vittima. Il fatto è – scrive l’Accademia – che alla base di questi delitti “c’è la concezione condivisa della “femmina” come un nulla sociale. Insomma non si tratta dell’omicidio di una persona di sesso femminile, a cui possono essere riconosciute aggravanti individuali, ma di un delitto che trova i suoi profondi motivi in una cultura dura a rinnovarsi e in istituzioni che ancora la rispecchiano, almeno in parte”.
La cultura e le istituzioni: questi i due piani di azione sui quali dobbiamo muoverci. Quello culturale e sociale, e poi quello normativo e istituzionale. A me, nella responsabilità che da quattro mesi esercito, compete soprattutto occuparmi del secondo livello. Ma so bene che nessuna nuova norma ha senso se non cammina insieme ad un profondo cambiamento del nostro modo di pensare, parlare, guardare.

Parto da qui, dunque, dal livello culturale. Perché il rispetto della donna è un fatto che passa anche dall’uso della lingua e dell’immagine. Faccio appena un accenno all’uso sessista della lingua. Ogni volta che si deve offendere una donna è immancabile il riferimento ai presunti comportamenti sessuali della stessa. Qualunque sia il ceto sociale di appartenenza, qualunque sia il grado di istruzione, qualunque sia la natura della discussione, l’uomo (anche giovane, purtroppo) di norma non ribatte sullo stesso terreno, ma sposta il piano su quello dell’offesa sessuale. Non è solo una mia constatazione. È la Corte di cassazione che lo afferma, in una sentenza dello scorso mese di gennaio. L’ho menzionata perché “porre le donne in condizione di marginalità e minorità” – come dice la sentenza – è uno degli effetti che ha ottenuto e ottiene parte della comunicazione.

Il gioco lo abbiamo capito e svelato. La denuncia fatta riguardo all’uso offensivo del “corpo delle donne” (cito anche io il video di Lorella Zanardo) è stata uno dei segni di risveglio più potenti arrivati dalla società italiana di questi anni. La denuncia di uno stereotipo di donna del tutto irrealistico e regressivo, esasperato nelle sue caratteristiche femminili, persino modificato con le più sofisticate tecnologie di ritocco dell’immagine, per cui talvolta capita – con effetti involontariamente paradossali – che le proporzioni del corpo siano totalmente innaturali. Un corpo che diventa un oggetto di visione, decorativo, allusivo e ammiccante, mercificato e degradato.
“Sii bella e stai zitta”, come dice il titolo di un libro della filosofa Michela Marzano, deputata in questa legislatura. Un oggetto – non un soggetto – al pari dei prodotti di cui promuove la vendita. Torno a sottolinearlo, come ho già fatto in questi mesi: è una nostra negativa anomalia, questa deformazione pubblicitaria della donna. In giro per l’Europa non è abituale usare donne seminude per vendere yogurt, televisori, valige.

Così come sarebbe difficile vedere in onda uno spot in cui papà e bambini stanno seduti a tavola, mentre la mamma in piedi serve tutti.

Per chi giustamente si preoccupa dell’immagine internazionale dell’Italia, queste immagini sono un problema. Come donne lo sappiamo. Ma la soluzione non si troverà finché saranno solo le donne a discuterne; finché non si comprenderà che il problema della sottorappresentazione e della rappresentazione offensiva della donna ha una dimensione maschile – di educazione al rispetto – che riguarda in primo luogo gli uomini. Questa rappresentazione regressiva della donna, infatti, è un ostacolo alla complessiva maturazione della società, specialmente nella sua componente maschile, a sua volta prigioniera di immagini e modelli del tutto irrealistici. Ed è anche nello scarto tra questi stereotipi e la carenza di strumenti culturali per elaborare una realtà quotidiana spesso difficile, che si annidano i germi del rancore e della violenza.

Come uscirne, come concorrere a produrre una nuova cultura? Innanzitutto nel dialogo tra i diversi soggetti coinvolti, come state facendo con l’iniziativa di oggi. Mettere a confronto con le voci della società civile le donne e gli uomini che creano pubblicità e fanno televisione, e tra i quali si stanno facendo strada – come abbiamo sentito anche stamattina – le domande che tante donne hanno posto da anni. Lo ricordava qualche giorno fa, proprio qui a Milano, Annamaria Testa all’Assemblea annuale dell’UPA (Utenti pubblicità associati, l’organismo che riunisce le più importanti aziende che investono in pubblicità): «educare non è compito della pubblicità. Devono farlo le famiglie, la scuola, le istituzioni. Ma – aggiungeva – la pubblicità può e oggi forse dovrebbe dare una mano, proprio perché è così efficace».

E per aiutarci a rappresentare più fedelmente l’universo femminile può fare moltissimo anche la tv, in un Paese in cui la televisione costituisce ancora la prima fonte di informazione e intrattenimento per la gran parte dei cittadini. In particolare la televisione di servizio pubblico, il cui pluralismo non può essere soltanto quello (pur essenziale) della equilibrata presenza delle forze politiche. C’è una par condicio che viene violata assai più frequentemente, ed è quella tra i generi e la loro rappresentazione. Qualche segnale importante però sta arrivando: penso alla decisione della Rai di rinunciare quest’anno a Miss Italia, per la quale ho già espresso il mio apprezzamento alla Presidente Tarantola. Qualcuno si è lamentato di questa scelta,come se si trattasse dell’imposizione di un clima di austerità cupa e bacchettona.

Io credo invece che ci si debba rallegrare di una scelta moderna e civile, e spero che le ragazze italiane possano avere, per farsi apprezzare, altre possibilità (anche televisive) che non quella di sfilare numerate. E mi auguro che il servizio pubblico sappia trovare anche forme di collaborazione con la scuola italiana proprio sul tema che oggi stiamo affrontando. Perché c’è bisogno di far crescere i nostri ragazzi anche nella capacità di decifrare i messaggi dei media, di “smontare” gli spot e i programmi dei quali sono intensi consumatori. C’è bisogno di ragionare insieme a loro sul modello di donna-oggetto che dallo schermo insistentemente viene proposto. Anche per questa via si può insegnar loro il rispetto delle coetanee ed evitare che diventino adulti violenti. Perché, se la donna viene resa oggetto, da lì alla violenza il passo è breve.

L’altro piano di intervento è il piano normativo e istituzionale, ed è quello sul quale, come Presidente della Camera, sono chiamata all’impegno più diretto.

Con la ratifica della Convenzione di Istanbul sulla violenza domestica un primo importantissimo passo è già stato mosso. Ora bisogna costruire un quadro giuridico coerente, partendo dalla conoscenza e dalla diffusione delle regole che già esistono.

In primo luogo, le regole europee. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea vieta qualunque forma di discriminazione fondata in particolare sul sesso. In modo più diretto era intervenuta, già nel 1989, la c.d. direttiva “Televisione senza frontiere”, poi rafforzata da una direttiva successiva. E ancora più esplicita è la risoluzione approvata dal Parlamento europeo nel 2008 e interamente dedicata all’impatto del marketing e della pubblicità sulla parità tra uomini e donne. “La pubblicità e il marketing riflettono la cultura e contribuiscono altresì a crearla”, dice l’Europarlamento, e chiede perciò codici di condotta che proibiscano messaggi discriminatori o degradanti basati sugli stereotipi di genere. L’Europa ci chiede anche questo, non soltanto di essere in regola coi parametri finanziari.

In Italia mancano ad oggi leggi specifiche, nonostante la Costituzione offra, in più articoli, un solido ancoraggio all’intervento del legislatore a tutela dell’immagine e della dignità della donna. L’unica norma statale alla quale è possibile fare attualmente riferimento si trova nel Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici. Tra i suoi principi generali c’è quello per cui le pubblicità non devono pregiudicare il rispetto della dignità umana e non devono contenere discriminazioni fondate sul sesso. Su tali principi, come è noto, è chiamata a vigilare l’Autorità garante per le comunicazioni.

E’ chiaro che, in assenza di una legge, ci sono stati interventi di supplenza. Un esempio è il Codice di Autodisciplina della Comunicazione commerciale, promosso dall’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, che ha recepito i contenuti della risoluzione del Parlamento europeo del 2008. Non mancano, d’altro canto, esempi di buone pratiche da parte degli enti locali. Cito per tutti la legge del 2009 della Toscana sulla “Cittadinanza di genere”, con la quale la Regione intende attivarsi anche per eliminare gli stereotipi. E decisamente significative sono le esperienze maturate a livello comunale. Ho sentito e apprezzato il gran lavoro che proprio qui a Milano avete fatto, e che due settimane fa ha portato la Giunta di Palazzo Marino ad approvare le nuove regole per la valutazione dei messaggi da affiggere sugli spazi in carico all’Amministrazione comunale.

Questi provvedimenti hanno una valenza particolarmente importante, perché sono il frutto di un rinnovato impegno da parte delle donne, che tornano ad essere protagoniste. Non è censura moralistica, come qualcuno ha tentato e tenterà di affermare, ma è una battaglia per la libertà e l’inviolabilità della persona.

E sono importanti anche perché sollecitano il Parlamento ad adottare una legislazione condivisa. Il tempo è maturo per pensare ad una legge basata sui princìpi forti espressi dalla nostra Costituzione e dal diritto europeo. Ad oggi sono state già presentate alla Camera due proposte di legge (sulla pubblicità ingannevole che altera l’apparenza fisica e sulla tutela della dignità della donna nella pubblicità e nella comunicazione). Analoghe iniziative sono state presentate al Senato. Spero, anzi credo, che un Parlamento composto in larga parte da giovani,e con una rappresentanza femminile decisamente più significativa rispetto al passato, vorrà farsi carico di mettere il tema in agenda e di fare un altro passo in avanti nella tutela della dignità delle donne.

Lo dobbiamo a Fabiana, lo dobbiamo alle tante donne che non ci sono più, lo dobbiamo a noi stesse.

Più donne al potere per migliorare il mondo

di Alessandra Casarico, Paola Profeta

“A woman’s world”: la rivista “Finance and Development” del Fmi dedica un numero al genere, e a quel che frena la leadership delle donne. Un’analisi dei meccanismi di selezione e altri fattori che spiegano perché “le brave ragazze non ottengono l’ufficio d’angolo”. Con qualche proposta per rimediare, da Wall street all’India

La presenza di gender gap nel mercato del lavoro è un fenomeno assai noto: minore partecipazione femminile, minori remunerazioni medie e difficoltà di accesso ai vertici delle aziende sono i principali segnali della mancanza di uguali opportunità tra uomini e donne. In alcuni paesi, l’Italia tra questi, meno del 50% delle donne partecipa al mercato del lavoro. Anche nei paesi in cui la presenza femminile è maggiore, poche sono le donne che raggiungono la “C-suite”, ossia le posizioni di amministratore delegato, direttore generale o direttore finanziario. Secondo i dati di Fang riportati nel Magazine, nel 2011 solo l’8% dei direttori finanziari e l’1,5% degli amministratori delegati di imprese americane di grandi dimensioni era donna. Secondo i dati della Commissione Europea, nelle principali società quotate europee solo il 5% dei Presidenti e il 16% dei membri dei CDA è donna (European Commission, Women and men in decision making, 2012).

Le donne non ci sono perché non vogliono esserci o c’è altro? La risposta che Fang offre è che “le brave ragazze non ottengono l’ufficio d’angolo” non perché non chiedono, ma perché i criteri con cui sono valutate per le promozioni sono diversi da quelli applicati per gli uomini. Prendiamo come campione gli analisti finanziari di Wall Street: ambiente altamente competitivo, in cui le donne sono circa il 20% del totale e in cui il network di relazioni è cruciale per avanzare di carriera. Le analiste donne hanno mediamente un’istruzione di maggiore qualità (più frequentemente hanno una laurea nelle Università della Ivy League), sono “connesse” alle aziende che devono valutare tanto quanto lo sono i colleghi maschi e hanno la stessa probabilità di ottenere lo status di “all star”, prestigioso riconoscimento attribuito dalla rivista “Institutional Investors”. Ma lo studio dei fattori che consentono alle donne e agli uomini di raggiungere questo riconoscimento rivela un’asimmetria di genere: per le donne l’istruzione e l’accuratezza nelle previsioni sono le determinanti principali; per gli uomini sono i contatti l’elemento cruciale.

Studiare i meccanismi di selezione è essenziale per comprendere perché poche donne arrivino nella C-Suite, nei consigli di amministrazione o in altre posizioni di vertice. Occorre verificare che la selezione sia il più possibile “gender neutral”. Se per esempio sono sempre uomini a selezionare, è probabile che, anche involontariamente, premino qualità “maschili” e applichino stereotipi verso la leadership femminile. La mancanza di donne nelle posizioni di comando e di selezione, a sua volta, può rafforzare gli stereotipi. Gli studi di Pande, Topalova e coautori discussi nel Magazine fanno luce sugli effetti degli stereotipi e propongono politiche efficaci per superarli: gli stereotipi di genere non consentono di riconoscere competenza nelle donne, ma quando si sperimenta la leadership femminile, le convinzioni sulle capacità delle donne mutano radicalmente, e in positivo.

Questo cambiamento ne genera di ulteriori sulla fiducia delle ragazze e sul livello delle loro aspirazioni. Per approfondire questo risultato spostiamoci da Wall Street all’India; dall’economia alla politica: nel 1993 l’India, allo scopo di aumentare la presenza femminile in politica, introduce una modifica costituzionale e riserva alle donne un terzo dei seggi in ogni amministrazione locale. Inoltre, nel West Bengal, regione su cui si concentra l’analisi, un terzo delle amministrazioni locali in ogni elezione viene casualmente selezionata per una leadership femminile, ossia per attribuire la posizione di consigliere capo –pradhan- ad una donna. Poiché i villaggi che hanno una leader donna sono selezionati casualmente, non ci dovrebbe essere nessuna differenza osservabile tra villaggi riservati o non riservati ad un pradhan donna, il che consente ai ricercatori di individuare un effetto causale dello “sperimentare un capo donna”. La percezione dei votanti sull’efficacia della leadership femminile è completamente diversa nei due gruppi di villaggi: gli elettori che sono stati “esposti” al capo consigliere donna per un periodo sufficientemente prolungato pensano che le donne siano dei leader competenti, a differenza degli abitanti dei villaggi che non hanno avuto questa esperienza.

Ciò che è ancora più interessante è che la presenza di donne in posizione di leadership ha modificato le aspettative e le aspirazioni dei genitori per le loro figlie (senza ridurre quelle per i loro figli) e delle figlie stesse per il loro futuro. Il cambiamento nelle aspirazioni si è poi tradotto in una riduzione del gap in termini di istruzione, generalmente a favore dei ragazzi, e dell’asimmetria nella ripartizione dei compiti domestici, in cui tipicamente le ragazze sono maggiormente coinvolte.

In India la scelta politica di avere donne leader è stata un catalizzatore di cambiamento. Secondo nostri studi (Baltrunaite, Bello, Casarico e Profeta, 2012), le quote di rappresentanza di genere, che sono state in vigore in Italia tra il 1993 e il 1995 per le elezioni comunali, hanno aumentato la qualità media dei politici eletti nelle amministrazioni locali. La legge Golfo-Mosca ha recentemente introdotto l’obbligo temporaneo di rispettare quote di rappresentanza di genere (il 20% per il primo mandato e il 33% per i successivi due) nei consigli di amministrazione e collegi sindacali delle società quotate e delle società a controllo pubblico. L’Italia, tradizionalmente in una posizione di retroguardia, sta recuperando terreno nelle classifiche internazionali.

La presenza femminile nei consigli di amministrazione delle società quotate è passata dal 7,23% del giugno 2011 all’11,16% del gennaio 2013. Fino al 2006 eravamo sotto il 5% e l’evoluzione era lentissima. Ancora più rivoluzionario si prevede l’impatto sulle società a controllo pubblico, che in Italia sono molto più numerose delle quotate. Ma la vera rivoluzione accadrà se questa legge sarà il nostro catalizzatore di cambiamento della cultura di genere. E’ quello che ci auguriamo.


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Lettera aperta al Ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni

Egregio Signor Ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni,

salutiamo come molto positive le nuove disposizioni relative ai criteri e ai vincoli per le prossime nomine nei CDA e collegi sindacali di importanti società partecipate dallo Stato: prendiamo atto con piacere dell’impegno di questo Governo per criteri di nomina che garantiscano trasparenza, onestà, merito, competenza e per una ricerca di talenti e competenze che rompa l’inveterata concentrazione delle responsabilità in poche (e sempre le stesse) mani. Siamo convinte che sia questa una strada da battere per far uscire il nostro paese dall’immobilismo e sostenere quel che in esso c’è di valido e dinamico.

Riteniamo tanto più importante che in questo quadro ci siano stati, nel corso del dibattito in Aula al Senato sui criteri per le nomine, precisi ed espliciti richiami alla legge 12 luglio 2011, n. 120, e al successivo decreto, relativi alla presenza di donne negli organi dirigenti di società di questo tipo. Inoltre la mozione TOMASELLI, approvata il 19 giugno scorso, cita espressamente il decreto del Presidente della Repubblica 30 novembre 2012, n. 251, che impone che almeno un terzo dei componenti di ciascun organo sociale appartenga al genere meno rappresentato, stabilendo che per il primo rinnovo successivo all’entrata in vigore del regolamento tale soglia sia almeno pari a un quinto.

Abbiamo notato, però, che tale esplicito richiamo è scomparso dalla Direttiva del 24 giugno emanata dal Suo Ministero. Tale mancanza ci allarma, per precedenti esperienze, dove abbiamo visto perdere per strada norme di garanzia di genere innovative (come quella sulla par condicio di genere nei Media introdotta dalla L. 215 del 2012), fino al loro annullamento di fatto. Poiché come Ministro Lei si è riservato l’insieme di atti di alta amministrazione per la piena realizzazione della Direttiva, La invitiamo a dar corso a quanto previsto dalle disposizioni della legge su menzionata, anche con un’attenta vigilanza rispetto ai singoli e specifici atti amministrativi che il Suo Ministero va emettendo su questa materia.

– Suggeriamo inoltre che le due società incaricate per la raccolta e primo vaglio dei curricoli vengano da codesto Ministero impegnate a fare quanto accade da anni in altri paesi, che delle competenze e talenti delle donne intendono realmente usufruire:
1. che siano raccolti per almeno il 33 % curricoli di donne (un giornalista italiano chiedeva a un cacciatore di teste norvegese come facessero a trovare donne per i posti di responsabilità, visto che è difficile trovarle. La risposta fu: le cerchiamo, e le troviamo sempre).
2. che tali società facciano riferimento alle numerose fonti ormai esistenti in tal senso: in particolare i data base Ready for Board Women, quello della Fondazione Bellisario, l’elenco con oltre mille nominativi già a suo tempo inviato a codesto Ministero dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, oltre a vari altri elenchi creati a livello locale.

– Chiediamo che la dimensione di genere sia esplicitamente considerata nelle operazioni di monitoraggio previste dalla Sua Direttiva, che a nostro parere va in tal senso formalmente integrata.
– Suggeriamo, infine, che il Comitato di garanzia ivi previsto, ove abbia a venire in essere, sia composto di donne e uomini in numero uguale, a garanzia anche di quanto stiamo sottoponendo alla Sua cortese attenzione.

Siamo consapevoli che tutto ciò renderà ancora più complessa la difficile partita a Lei affidata, ma riteniamo che il rispetto della legge 120, anche magari con anticipazioni già ora al 33% di nomine al femminile, sia del tutto in linea con l’esigenza di rinnovare e rendere più efficiente la dirigenza di importantissime aziende, al cui buon andamento come cittadine e contribuenti siamo strettamente interessate.

Inviamo i nostri più cordiali saluti.

Roma, 30 giugno 2013
La presidente Rosanna Oliva


Leggi anche la direttiva MEF giugno 2013


Riferimenti:


Indispensabile una Ministra per le Pari Opportunità

“Lo spacchettamento delle deleghe della Ministra dimissionaria Josefa Idem non può essere una soluzione definitiva.” Lo afferma la Rete per la Parità che come altre associazioni aveva chiesto con una formale lettera (in https://www.reteperlaparita.it/dimissioni-idem-la-rete-per-la-parita-chiede-la-nomina-di-una-nuova-ministra-alle-pari-opportunita/) al Presidente del Consiglio la nomina di una nuova Ministra.

Non si comprende come mai il Governo abbia scelto solo per le Pari Opportunità, materia tipicamente trasversale ad ogni argomento, di attribuire la delega ad un vice ministro che non partecipa, se non invitata e senza diritto al voto, al Consiglio dei Ministri, mentre vi partecipano a pieno titolo i due Ministri delegati alle politiche giovanili e allo sport.

Formalmente il vero delegato sarebbe il Ministro del lavoro? Torniamo alla situazione Fornero, o, peggio, a prima della Conferenza di Pechino del 1995?

Il grave inconveniente non può quindi essere superato immaginando uno specifico invito di volta in volta alla Vice Ministra, e spetta al Presidente del Consiglio trovare la soluzione definitiva e completa ai problemi aperti dalle dimissioni di Idem, che non possono ritenersi risolti solo attraverso il mantenimento degli equilibri esistenti tra le forze politiche che compongono il Governo.

Roma, 27 giugno 2013

La Rete per la Parità chiede la nomina di una nuova ministra alle Pari Opportunità

La Rete per la Parità, preoccupata per l’annuncio che le deleghe della ministra dimissionaria potrebbero essere ridistribuite all’interno dell’attuale compagine governativa, chiede, se questa fosse la soluzione temporanea dettata dall’urgenza, che si individui almeno anche una sottosegretaria con la delega alle Pari Opportunità.

La Rete per la Parità, che riunisce associazioni nazionali e Università, ritiene comunque utile, o, meglio, necessaria, la nomina di una nuova ministra, e chiede che la scelta rimanga estranea a vecchie logiche spartitorie e sia sostenuta anche dalla consultazione di associazioni e gruppi impegnati su queste tematiche.

Servono modi innovativi di affrontare i problemi – prosegue la lettera aperta inviata al Presidente del Consiglio e diffusa sul WEB – e quelli con cui deve confrontarsi la Ministra per le Pari Opportunità riguardano trasversalmente tutte le priorità nell’agenda di Governo. Dall’occupazione giovanile, o, meglio, delle donne e dei giovani, all’impoverimento del Paese, alla violenza contro le donne, alle riforme istituzionali, a partire da una legge elettorale che la Rete per la Parità ha chiesto si collochi in una prospettiva di democrazia paritaria.

La lettera conclude segnalando i nomi di donne impegnate su queste tematiche, a partire dalle due parlamentari Valeria Fedeli e Monica Cirinnà, e poi Linda Laura Sabbadini, Daniela Carlà, Chiara Saraceno e Marilisa D’Amico.

Rosanna Petillo
Giornalista – fotografa
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RP Communication
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Leggi la lettera aperta al Presidente del Consiglio – On.le Enrico Letta


SNOQ, sarà nuova vita

di Vanna Palumbo

“Gli ideali politici dei popoli oppressi possono essere soltanto la libertà’ e la giustizia; la loro forma organizzativa può essere soltanto democratica”. Leggere queste righe di Hannah Arendt, scritte durante l’esilio parigino, prima del suo soggiorno in America, parole che rimandano alla genesi del pensiero politico della scrittrice ebraica, suggerisce una chiave interpretativa valida per la lettura dei fatti, anche dell’oggi. Dunque, ad esempio, del grande tema della condizione della donna in Italia e nel mondo, orizzonte, quest’ultimo, cui fare riferimento per una migliore comprensione del processo di ripresa di protagonismo del movimento delle donne. Processo che, qui da noi, ha visto un’insperata quanto necessaria rivitalizzazione con la corale reazione salita dal Paese alla definitiva presa d’atto della mortificazione della persona-donna dilagata in misura via via crescente, oltre ogni sopportabile limite, negli ultimi 20 anni, sotto l’egemonia ‘culturale’ del centrodestra italiano e del suo capopopolo Berlusconi.
Parliamo di quella fiammata di indignazione che va sotto il nome di Se non ora, quando?<!Era il 13 febbraio del 2011 quando ad un appello di mobilitazione lanciato da un nutrito gruppo di donne impegnate nella cultura, nel sindacato, nell’associazionismo di genere e nella politica giunse una risposta tanto grande, forte, diffusa, da appuntare quella data come l’inizio di un nuovo cammino delle donne italiane.

Una avvertita sensibilità ha da allora pervaso i luoghi della politica, delle decisioni, delle scelte. Con pochi risultati ascrivibili ad una nuova agenda women oriented e, ancor più, ad un assetto più democratico della nostra ‘cosa pubblica’. Ma con l’innegabile merito, anche grazie al cambio di governo, di aver quantomeno rimesso in asse quel piano inclinato lungo cui continuavano a scivolare il ruolo e l’immagine femminile in un inarrestabile declino della dignità pubblica e privata delle donne. Un degrado percepito e risultato indigeribile anche a molte delle sostenitrici ed elettrici del tycoon e, nondimeno, a molte delle stesse esponenti del suo partito.
Non ha mai avuto vita facile Snoq con il suo Comitato promotore, lievitato via via – mediante cooptazione – fino al pletorico numero di 40 ed oltre.

All’entusiasmo incontenibile della prima e della seconda ora, dal lancio dell’appello alla fase euforica del postmanifestazione di piazza del Popolo a Roma, alla conseguente proliferazione di bandierine di Snoq disseminate sull’intero stivale con la nascita di Comitati territoriali, era seguita, nel breve giro di mesi, un’insistente domanda di più netta definizione identitaria e, accanto ad essa, la richiesta di una continuità d’azione politica cui l’embrionale movimento nel suo complesso e, nello specifico, il suo ‘vertice’ – raccolto perlopiù intorno a poche singole personalità del mondo culturale – non erano pronti a fornire.

Ma il treno del nuovo femminismo era oramai lanciato sul binario ad alta velocità e, sospinto da una corrente divenuta impetuosa, prometteva di non arrestarsi se non dinanzi ad una apprezzabile inversione di quella tendenza alla marginalità, all’irrilevanza, quando non alla mercificazione del corpo delle donne e delle donne stesse, troppo spesso salite all’onore della cronaca come merce di ‘scambio’ e di ‘premiazione’ della fedeltà politica, al pari delle tangenti o dei benefits aziendali.

Il bilancio dei due anni del movimento, o rete di Snoq, mostra luci ed ombre. Un faro si è acceso soprattutto sull’aspetto eminentemente culturale e di mentalità delle donne stesse che, seppur non ancora di massa, ha toccato molti degli ambiti dell’attività delle donne. Con un primo dato assolutamente positivo e per niente disprezzabile sul piano della rappresentanza politica – affermatosi su un terreno già dissodato da anni di impegno di altre associazioni – dell’irruzione della doppia preferenza di genere per le elezioni amministrative che, sebbene al di sotto delle aspettative, ha comunque registrato molte più donne che in passato nei Consigli regionali, comunali e circoscrizionali.

Ma è sul piano dell’accresciuta consapevolezza di quella che si configura come una ‘segregazione’ nella vita sociale e lavorativa, o nell’esclusione dall’effettiva rappresentanza politica, istituzionale, dei corpi sociali intermedi che il nuovo corso italiano ha fatto centro. Indagini specifiche, ricerche, studi e comparazioni con altri paesi sono entrati, anche grazie ad un’informazione più attenta (la femminilizzazione del lavoro nelle redazioni e nel sistema dei media e della comunicazione è dato acquisito da tempo) si sono affiancate alle normali rilevazioni statistiche evidenziando ad una platea sempre più ampia di donne e di uomini quel ritardo storico e quel gender gap la cui gravità ed anomalia erano rimaste fin lì relegate ad organizzazioni, associazioni o gruppi che di questa stortura del sistema democratico e della sua denuncia avevano fatto la loro ragion d’essere.

Ecco, Snoq ha come sdoganato un dibattito rimasto suo malgrado asfittico e fatto affiorarequella coscienza rimasta fin li silente in tante donne estranee ai movimenti esistenti. Tutto merito di Snoq? No di certo! Le donne, giovani e meno giovani, mobilitatesi il 13 febbraio nelle città come nella provincia italiane erano pronte, e in buona misura già presenti in un movimento diffuso, come in attesa di un segnale! E da allora allora hanno proseguito a gremire, con una propria caratterizzazione, le piazze, i palazzetti dello sport, i convegni, le assemblee rivendicando i loro diritti e indicendo proprie iniziative pubbliche, costruendo loro ‘piattaforme’ e, in definitiva, imponendo una nuova, diversa, lettura dei fatti del Paese.

È stata conseguenza non eludibile, percio’, che all’Assemblea nazionale del 1° e 2 giugno scorso i Comitati territoriali di Snoq ascendessero al governo del movimento. Favoriti, in ciò, dal saggio sostegno di una parte consistente del Comitato promotore, nel frattempo logoratosi in diatribe interne definite, da entrambe le parti in conflitto, “non piu’ sanabili”

E tornano le parole della Arendt: la forma organizzativa – insistentemente al centro della vivida discussione dei primi di giugno – di un popolo ‘oppresso’, qual è quello delle donne, non può che essere democratica. Faticosamente ed inesorabilmente democratica.

Quanto agli ideali di libertà e giustizia, il confronto rimane aperto. E sarà tema appassionante, c’è da crederci, dell’Assemblea generale di fine settembre e del Coordinamento dei Comitati territoriali o tematici -fra i quali ricomprendere i due tronconi nei quali il comitato promotore oggi si riconosce, quello di Snoq Libere e il neonato Snoq Factory- convocato per metà luglio.

Dopo gli stop and go della fase ‘adolescenziale’ e il bagno democratico che ha generato la pur perfettibile forma organizzativa, Snoq non ha alternative: deve imboccare la strada di una nuova cultura politica, deve costruire una visione ed una credibilità nuove, generare alleanze, definire nuovi percorsi di azione ed iniziativa pubblica. Lo deve alle donne. A tutte le donne.

Lettera aperta ai Neo-eletti Sindache e Sindaci

Neo-elette Sindache, neo-eletti Sindaci,

ci rivolgiamo a Voi, all’indomani del risultato elettorale conseguito, perché uno dei primissimi compiti che Vi spetta è la nomina degli Assessori che comporranno le Giunte dei Comuni che dovrete amministrare.

Riteniamo, infatti, doveroso ricordarVi che tra i criteri che orienteranno le Vostre scelte ve n’è uno ineludibile: il rispetto della parità di genere.

Il principio non è consacrato soltanto a livello sovranazionale (in particolare dalla Carta di Nizza, ora dotata di valore giuridico, che impone la parità tra i sessi “in tutti i campi”) e dalla nostra Costituzione (precisamente dall’art. 51, che garantisce e promuove condizioni di uguaglianza nell’accesso a tutti gli “uffici pubblici”); un vincolo deriva, infatti, anche dalla legge, rivolta specificamente alle amministrazioni locali.

L’art. 6 Tuel già stabiliva che gli statuti dei Comuni dovessero introdurre norme per “promuovere” la presenza di entrambi i sessi nelle Giunte, negli organi collegiali, enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.

Oggi la portata vincolante di questa previsione è stata però resa ancor più inequivocabile grazie alla novella introdotta dalla legge n. 215 del 2012 (recante disposizioni per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali. Disposizioni in materia di pari opportunità nella composizione delle commissioni di concorso nelle pubbliche amministrazioni).

Per effetto di questo intervento normativo quello che prima era un obiettivo da “promuovere” è diventato ora un risultato da “garantire”.

A conferma del fatto che si tratta di un obbligo immediatamente operante, al quale le neo-elette Sindache e i neo-eletti Sindaci devono attenersi sin da subito, l’art. 46 Tuel espressamente afferma che “Il sindaco e il presidente della provincia nominano, nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi, i componenti della giunta”.

Vi ricordiamo che già nella vigenza della precedente formulazione normativa l’assenza o la scarsa presenza di donne nelle Giunte degli enti locali (così come negli Esecutivi delle Regioni) è stata censurata dalle autorità giudiziarie, adite da cittadini e associazioni per veder rispettato il principio della parità.

A maggior ragione, dunque, i Giudici non esiterebbero oggi ad annullare i decreti di nomina delle Giunte in via di formazione qualora queste fossero ‘affette da squilibrio di genere’. Essi riscontrerebbero, infatti, la diretta violazione delle disposizioni contenute nella legge n. 215 del 2012, disposizioni che, peraltro, sono state già interpretate nel senso che non potrebbe di certo soddisfare il vincolo da esse posto la mera presenza di un rappresentante per ogni genere. Il presupposto su cui si basa questo intervento normativo è, infatti, che gli organi decisionali sono in grado di guadagnare in termini di funzionalità ed efficienza quando donne e uomini siano in essi congruamente rappresentati.

Per queste ragioni Vi invitiamo a formare Giunte composte in modo paritario, nelle quali non solo sia garantito l’equilibrio tra i generi, ma siano altresì assegnati, senza discriminazioni, gli assessorati di rilevante peso politico.

Diversamente, non ci asterremo dal far valere il rispetto della parità tra i generi dinanzi alle autorità giudiziarie competenti, impugnando gli atti di nomina delle Giunte per violazione di legge.

Ci auguriamo di non dover procedere a ricorsi, in quanto questa volta potrebbero essere accompagnati anche da azioni per accertare eventuali responsabilità per atti consapevolmente compiuti in violazione di legge, dai quali potrebbero derivare gravi conseguenze non solo economiche a danno della collettività.

In tal senso ha deliberato l’Assemblea della nostra Associazione, tenutasi lo scorso 5 giugno.

E’ gradita l’occasione per inviare i nostri più cordiali auguri di buon lavoro.

Roma, 13 giugno 2013

La Presidente
Rosanna Oliva

Il treno delle riforme attende ancora il via – parte 2

Il treno delle riforme attende ancora il via.
Numero 2 aggiornato al 3 giugno

Le questioni di genere non possono essere trascurate. Il Convegno della Rete per la Parità si pone l’obiettivo di richiamare a una visione di genere le istituzioni: Presidenza della Repubblica, Governo, Parlamento, Partiti e Movimenti, alle prese con il difficile avvio delle riforme.
Se saremo ascoltate, la complessità del tema delle riforme se ne avvantaggerà, sarà il segnale che coloro cui il compito è affidato, quasi esclusivamente uomini, stanno agendo nell’interesse generale, desiderano davvero modificare le leggi per eliminare ostacoli all’attività pubblica e adottano decisioni non nell’ottica di interesse di singoli gruppi ma di tutte e tutti.

Tempo fa, nello scegliere la prima settimana di giugno per questo incontro eravamo consapevoli che sarebbe stato il momento giusto.

La fortuna ci ha anche aiutato, perché proprio alla fine di questa settimana, dopo un percorso di poco più di un mese dal 28 aprile, giorno del giuramento del Governo Letta, il cammino del treno delle riforme, che in un proprio post Aspettare stanca ha definito piuttosto un bus Stop & Go, dovrebbe arrivare ad una prima tappa: il Disegno di Legge del Governo, che fa seguito alla mozione bipartisan approvata dal parlamento. Non sono mancate le polemiche per una mozione che non fa cenno della riforma della legge elettorale e la mancata approvazione di quella proposta dal vicepresidente del Senato, il PD Giachetti, per il ritorno al Mattarellum.

Anche le preoccupazioni non mancano, innanzitutto perché, la riforma elettorale sembra oscurata e rinviata a un momento successivo, ma anche per il rischio che potrebbe correre tutto l’impianto democratico nell’ipotesi di una revisione della Costituzione che, con l’introduzione del presidenzialismo o semipresidenzialismo, dovrebbe comportare un riassetto drastico dell’intero sistema di equilibrio tra poteri.

Per la verità anche la cosiddetta “messa in sicurezza” dell’attuale legge elettorale preoccupava non poco.
L’inizio del cammino verso le riforme elettorali in questa legislatura potrebbe essere fissato al 16 aprile, prima ancora del Governo Letta, con le parole del Presidente della Corte costituzionale Gallo che ha ricordato che molti, troppi, sono stati gli inviti a legiferare rivolti alle Camere rimasti «finora inascoltati». Tra gli appelli indirizzati al Parlamento dalla Corte, Gallo ha ricordato anche quelli relativi ai pronunciamenti della Consulta che invitano ad «introdurre una normativa che abbia una maggiore considerazione del principio costituzionale di uguaglianza fra uomo e donne.”

Tra le cose raccomandate alle Camere e disattese, Gallo ha sottolineato inoltre che la Consulta «ha invano sollecitato il legislatore a riconsiderare gli aspetti problematici della legge elettorale”.
In relazione agli sviluppi che sta avendo di ora in ora la questione delle riforme all’attenzione del Governo e del Parlamento, vi mettiamo al corrente che nei giorni scorsi, quando sembrava che il Consiglio dei Ministri avrebbe insediato una commissione di esperti, tutti uomini, cui affidare il compito di proporre le riforme, l’Accordo di azione comune per la democrazia paritaria ha chiesto una commissione paritaria.

Inoltre, come direttivo della Rete per la Parità, ci siamo affrettate a segnalare al presidente del Consiglio, alla ministra per le Pari opportunità e al ministro per le Riforme nove nomi di esperte.

Ci fa piacere che anche la competenza e l’esperienza delle donne siano state prese in considerazione come meritano.
Come Rete per la Parità abbiamo chiesto anche la consultazione di associazioni e gruppi: servono modi innovativi di affrontare i problemi.